CSI Piemonte: l’ultima parola all’Antitrust!

Neppure le recenti modifiche introdotte al decreto sulla spending review hanno sciolto i dubbi sulla natura (e sul destino) del Consorzio. A questo punto la riforma non è più rinviabile.

Scritto da Carlo Manacorda, economista, Università di Torino

Per la sua natura incerta, si colloca tra i modelli ermafroditi il Consorzio per il sistema informativo Csi Piemonte. La legge regionale del Piemonte che lo istituisce nel 1975 gli assegna la personalità giuridica di diritto pubblico. I suoi ricavi provengono, prevalentemente, da concessioni di contributi annuali regionali e da corrispettivi pagati dalla Regione Piemonte o da altri enti consorziati per l’esecuzione di servizi affidatigli. Gli enti, che versano anche la quota consortile, sono tutti amministrazioni pubbliche. Sembrerebbe, dunque, facile concludere che il Csi, per la natura giuridica attribuitagli e per il finanziamento costituito, pressoché totalmente, da denaro pubblico, è un’amministrazione pubblica. Di conseguenza, deve osservare tutte le regole di gestione proprie di queste: nei bilanci, nelle assunzioni, e via dicendo. E no. Negli atti normativi dell’ente si prevede che il rapporto di lavoro del personale è di tipo privatistico, ed è regolato dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza (il contratto applicato è quello delle aziende del terziario). C’è dunque una prima unione di parti appartenenti a soggetti di natura diversa: ente di diritto pubblico con personale privatistico, assunto quindi senza concorso pubblico, come prescriverebbe l’articolo 97 della Costituzione (massima libertà, dunque, nel reclutamento del personale).

Altro innesto genetico. Il cordone ombelicale che, statutariamente, lega il Csi alla Regione Piemonte ed agli altri enti consorziati, nelle evoluzioni giuridiche intervenute in materia, lo ha portato a considerarsi in house degli enti consorziati. Questo per ottenere direttamente le commesse dagli enti, senza dover passare attraverso procedure di gara (cosiddetto in house providing). L’ordinamento giuridico ammette questa forma purché sussistano, contemporaneamente, i due elementi stabiliti in sede europea: controllo analogo (l’ente deve sottostare a direttive stringenti delle amministrazioni costituenti, con ampi poteri di intervento e di controllo da parte di esse, quasi fosse una loro struttura interna – in house) e attività prevalente (lavorare quasi esclusivamente per le amministrazioni costituenti). Non sono rinvenibili documenti che attestino per il Csi la sussistenza dei due requisiti nei confronti dei consorziati (tant’è che il direttore Stefano De Capitani ha annunciato, recentemente, che l’ente ha acquisito rilevanti commesse addirittura all’estero, in Albania). L’aspetto dell’ente è dunque almeno quadriforme: natura giuridica pubblica per definizione e finanziamento pubblico, personale con trattamento privatistico, esercente attività commerciale se sviluppa servizi per terzi, nuovamente soggetto pubblico allorché assume la forma in house.

Monti con la sua spending review ha cercato di estirpare situazioni di questo genere. Manine gentili – sempre molto attive nei momenti tumultuosi in cui si preparano i maxiemendamenti di decreti da approvare con voto di fiducia – hanno modificato la norma originaria del decreto che prevedeva, automaticamente, la fine di tutte queste posizioni anomale. Superfluo evidenziare che questa fine di enti pubblici fuori norma appartiene al solco di quelle privatizzazioni da tempo richiesteci dai nostri partner europei e dal mondo nostrano delle imprese private per liberalizzare i mercati tuttora soggetti, per molti servizi e forniture, a monopoli pubblici. Privatizzazioni sempre volute a parole dalla classe politica, ma da essa impedite non appena tentate da chissisia, per non perdere potere, clientele e prebende.

Il testo della norma voluta dal Governo non asseconda, però, i trepidi desideri delle manine. Individua tassativamente gli enti che, controllati direttamente o indirettamente dalle pubbliche amministrazioni, sono esclusi dall’obbligo di scioglimento entro il 31 dicembre 2013 o di alienazione entro il 30 giugno 2013. Essi sono: società che svolgono servizi di interesse generale, società con compiti di centrali di committenza, Consip e Sogei, società finanziarie partecipate dalle regioni, ovvero che gestiscono banche dati strategiche per il conseguimento di obiettivi economico-finanziari (queste ultime però individuate con decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri), società costituite per l’Expo 2015 di Milano. L’esclusione dall’obbligo di cessazione nei termini sopra indicati può anche essere riconosciuto se le amministrazioni pubbliche controllanti accertano l’impossibilità di ricorrere al mercato per particolari ragioni indicate dalla norma. In questo caso però l’amministrazione controllante, in tempo utile per rispettare le scadenze per lo scioglimento o l’alienazione, trasmette una relazione all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust) per acquisire, sulla sua verifica di impossibilità, il parere vincolante dell’Autorità (che ha 60 giorni per renderlo).

Chissà se i dubbi sulla morfologia del Csi – sul quale, per escluderlo dalla cessazione, sembra vada fatta le verifica di impossibilità di ricorso al mercato sopra indicata – saranno risolti dal parere dell’Antitrust? In ogni caso e quale che sia l’esito della vicenda, il cittadino contribuente è stanco di tollerare che esistano enti finanziati col suo denaro ma che operano come “zone franche”, al di fuori delle regole che praticano tanti altri soggetti simili. Anche l’equità vuole che a parità di situazioni corrispondano regole e trattamenti uguali.

[Fonte: Lospiffero.com]

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